La roccia e lo strapiombo

Mi trovo su di un autobus e, con un nuovo modello di cellulare, effettuo numerose riprese.

Il mio nuovo telefonino Nokia ha molte caratteristiche e tra queste la telecamera sembra essere l’optional più utile e tecnologicamente più avanzato.

La immagini ad alta definizione catturate dalla telecamera vengono sfumate automaticamente alla fine della ripresa attraverso un software in dotazione.

Scendo dall’autobus e mi dirigo verso una zona boschiva dove vedo molte persone.

Mi ritrovo in breve tempo inserito in fila indiana all’interno di un percorso ad ostacoli particolarmente complesso.

Mi arrampico a testa in giù, rispettando la fila, sotto una grande roccia a molti metri da terra per oltrepassare uno strapiombo che impedisce il passaggio. Mi sporgo da una considerevole altezza per raggiungere la roccia allungando il mio corpo. Le mani si muovono in attesa che i piedi si stacchino da terra ed io mi ritrovo completamente appeso a testa in giù. Sono molto preoccupato per l’altezza alla quale mi trovo e temo di non essere capace di reggere con le braccia tutto il peso del mio corpo.

Sono quasi arrivato alla fine della roccia quando mi accorgo che i piedi sono ancora attaccati al pavimento: la roccia si rivela più piccola di quanto pensassi.

Mi accorgo inoltre che altre persone, ritenute dalle nostre guide meno capaci di affrontare un percorso così accidentato, raggiungono facilmente la parte opposta dello strapiombo attraverso una breve camminata. Capisco che la paura e la tensione generate dal tentativo di superare la roccia sono state totalmente inutili. Avrei potuto raggiungere facilmente la parte opposta dello strapiombo se solo avessi valutato meglio la situazione, se avessi considerato diversamente le mie capacità e se avessi evitato di sentire, come al solito, la necessità di dimostrare la mia bravura riconoscendo invece i miei limiti e le mie incapacità.

Mentre sorpasso la roccia con un ultimo e goffo sforzo mi accorgo che molte persone sono già arrivate nello stesso punto senza fatica oltrepassando l’ostacolo con una semplice camminata nel bosco.

Il Parkour solitario

E’ domenica. Sono in un cortile di un’autocarrozzeria. Ha da poco piovuto e l’aria è fredda.

Un ragazzo magro si sta allenando a compiere salti molto complessi e pericolosi da zone rialzate del cortile. Lo osservo mentre tenta un salto giro con mezzo avvitamento da un gradino alto un paio di metri. Il ragazzo sbaglia senza farsi male. Torna poi sul gradino per tentare un’altro salto.

Per non sembrare troppo invadente mi allontano di poco e comincio a correre sull’acqua tentando di scivolare lungo una piccola discesa alla fine del cortile, ma senza ottenere grandi risultati.

Penso che anche io potrei tentare qualche evoluzione, ma poi decido che non è il caso non essendo allenato ed essendo consapevole delle mie ormai limitate capacità atletiche.

Il ragazzo mi nota, smette di allenarsi e comincia ad osservarmi mentre tento di compiere improbabili scivolate lungo la discesa del cortile.

Improvvisamente ci troviamo sulla terrazza del Pincio a chiacchierare amabilmente in compagnia di Enrico che nel frattempo si è unito a noi.

Il ragazzo racconta di essere di Torino e di aver vissuto per anni in alcune città del nord dove, da molti anni, è in voga il fenomeno del Parkour.

Da pochi mesi vive a Roma e non ha ancora fatto amicizia con nessuno. Gli dico che è pericoloso allenarsi da solo perché c’è il rischio di farsi male e di non avere la possibilità di chiedere aiuto.