La visita a casa del Dr. G.

D. ed io facciamo una visita al dr.G. Avvicinati al suo palazzo sembra essere arrivati davanti ad un negozio dentro ad un centro commerciale. L’unica differenza è che l’entrata ha un portone normale simile a quella di un condominio. Davanti casa sua vi è tanta gente che va in giro. Il dr. G. con la moglie , una signora alta e bionda, ci accoglie con un gran sorriso e ci fa accomodare dentro casa.

Entriamo e subito noto come la stanza sia piena di scaffali e cristalliere con molti oggetti, molti di questi antichi. Il dr. G. mi invita a scendere e vedere il piano inferiore così seguendomi mette una mano sul mio capo e iniziamo a scendere. Non scendiamo però lungo le scale, ma andiamo sopra un grosso geode di cristallo con molte facce e dal cui centro si irradiava una forte luce.

Nella discesa al piano inferiore noto che il tetto è ricoperto di specchi e vetri contenenti altri oggetti, tamburi, libri antichi, oggetti di cui non conosco ne l’origine ne il possibile uso, testimoni però di una conoscenza ancestrale ma ignota. Aspetto che scendano anche D. con la signora.

Eccoci al piano seminterrato. Una stanza molto simile alla prima ma con un vecchio tavolo ed una sedia al centro, sopra di essi una serie di catene, ed altri oggetti di ferro… La visita della casa continua e vedo girandomi con lo sguardo un balcone che dava su un esterno illuminato a giorno. Tuttavia il dr. G. mi invita a vedere un altra parte della stanza così vengo distolto da quel balcone… Mi affaccio così da un altro balcone e vedo un enorme mappamondo che pian piano modifica la sua forma: da sfera a piramide.

…Mi ritrovo da un altra parte con delle persone a guardare in una TV a tubo catodico di quelle con l’antennina e lo schermo bombato. Guardiamo e qualcuno commenta le immagini della sedia e del tavolo viste nella prima parte del sogno.

L’incendio, la casa di C. e l’unghia putrida della sorella

Sono in un cortile di una scuola. Ci sono molti tavoli in legno sui quali sono in vendita libri e giornali. Improvvisamente comincia ad andare a fuoco uno dei tavoli. Mi precipito a spegnere le fiamme che, nel frattempo, stanno divampando un po’ ovunque. Riesco ad arginare l’incendio per un po’ di tempo fino a quando, però, prende fuoco un cabinotto alle mie spalle coperto da un tetto in eternit. Sono preoccupato che il calore possa spezzare il tetto facendo uscire polveri cancerogene. Mi affretto ad utilizzare un tubo collegato ad un rubinetto. Lancio l’estremità del tubo nel gabbiotto prendendo poi un’altro tubo con il quale cerco di abbassare la temperatura della zona infuocata al fine di riuscire a spegnere l’incendo. Il mio tentativo risulta ben presto vano.

Decido di scappare e dico a B. di seguirmi per la scala antincendio.

Scendiamo verso il basso e, arrivati quasi ad un’uscita, mi accorgo di avere dimenticato il mio zaino ed il mio portafoglio dietro una porta di un’aula al piano superiore. Decido a malincuore di rinunciare a recuperare i miei oggetti facendo tesoro dei consigli che tempo fa ho avuto modo di udire durante un corso antincendio.

Io, B. e sua sorella ci dirigiamo verso la casa più vicina. Siamo nella zona di S.Pietro e ci dirigiamo verso casa di C., la mia ex-fidanzata.

Entriamo nell’appartamento sapendo che C. e la sorella in questo periodo sono fuori Roma, che i genitori sono andati al cinema o a teatro e che non torneranno prima di un paio d’ore.

B. va a farsi una doccia in uno dei due bagni della casa, sua sorella va nell’altro, io rimango sdraiato sul letto a pensare al rischio che stiamo correndo. Temo che possano tornare i genitori da un momento all’altro.

Ad un certo punto entra la vicina di casa, vicina di casa della mia fidanzata di quando ero adolescente. Mi guarda con sospetto, ma non fa minimamente cenno al fatto che mi abbia sorpreso in flagrante.

La signora mi racconta di sua sorella. Dice che, poverina, ha perso quattro dita in un recente incidente domestico. Mi mostra una sua unghia pretendendo che io la porti come come portafortuna.

Inorridisco di fronte a questo oggetto marrone e putrido.

Chiamo B. e sua sorella a gran voce dicendo loro di andare via in fretta da quella casa.

Il Samurai e le sub-papere

Sono un samurai giapponese, il signore di un palazzo che si affaccia su un lago. dentro la mia residenza vi sono delle inservienti e una donna ninja. Io vestito con tipici indumenti dell’epoca nippo-medioevale, con lunghi capelli lisci e le ciabatte infradito.

Mi dirigo verso la porta a due ante che dà sulla terrazza, apro e mi trovo in un balcone ampio e coperto da un tetto sorretto da colonne di legno come il pavimento e la ringhiera. La terrazza era una palafitta sul lago. Il lago si stendeva fino all’orizzonte e solo le montagne lontane lo delimitavano.

Mi dirigo verso un punto di luce nel terrazzo, probabilmente formato dai raggi del sole, intento a voler trovare il centro del balcone dove potermi sedere per meditare…noto però che il punto di luce non era il centro, che stava invece a circa un metro sulla sinistra ed era rappresentato da un quadrato di legno sulla pavimentazione. Il quadrato centrale aveva dei piccoli quadrati agli angoli. Mi siedo li nella classica posizione del loto…

A questo punto il balcone sembra restringersi ed io mi trovo seduto davanti al bordo contemplando il lago. Chiudo gli occhi come per concentrarmi ma diventa difficile, sono infastidito, riapro gli occhi e vedo due papere che nuotano nel lago. Una si immerge, sembrano intente a pescare in un acqua verde, sporca. Una cosa mi attira di loro…hanno delle maschere da nuoto agli occhi ed io le giustifico adducendo ad un loro adattamento alle acque inquinate.

Quel lago era sempre stato il lago sotto al mio palazzo e non sopportavo di vederlo così inquinato…cerco comunque di concentrarmi poichè dovevo prepararmi… a cosa?

Riapro gli occhi e da lontano vedo emergere dalle acque una testa di donna fermandosi all’altezza del naso: i capelli arruffati neri e corti e due occhi che si nascondevano dietro l’ombra delle arcate sopraccigliari.

Capisco perchè mi stavo concentrando…Subito balzo all’indietro con una capriola e mi dirigo verso le stanze dove ho le mie armi. Dentro un mobile prendo una spada di tre. la più corta. Il pericolo tuttavia non è ancora ne imminente ne tangibile. Le spade non erano proprio  lame katana, ma  sembravano più dei coltelli del pane di diversa lunghezza e seghettati con il manico bianco…

Una stanza nel vento

… sono in un paese molto caldo… in uno spiazzale… dal luogo in cui mi trovo si intravede, lontano, il mare… a terra della sabbia marrone ed ai lati una vegetazione lussureggiante…è un paesaggio a me familiare, un luogo dove per anni ho trascorso le vacanze con la mia famiglia… ma nel sogno sono consapevole di non essere lì… e di essere invece in un posto che gli somiglia soltanto… ma non è….

…una piazza sterrata molto grande…. nel centro sorge una stanza… senza pareti… solo un tetto di legno e paglia… è grande e “contiene” tutte le persone a me più care… la guardo da lontano… e sento un vento caldo… vedo passare mia cugina… trascina dietro di se un termosifone fucsia con una cover rosa… le chiedo dove ha preso un oggetto tanto strano… risponde che lo ha ricevuto in regalo da una amica di famiglia…. accanto a me l’amica più cara che ho… passeggia al mio fianco… ci dirigiamo verso la stanza… poi mi chiede di fermarmi… di aspettarla… vuole acquistare dei dolci da portare alla mia famiglia che ci aspetta… li trova da un venditore ambulante… sono frittelle… coperte di zucchero… vengono riposte in una busta di carta… riprendiamo il cammino verso la stanza… lei apre la busta ed inizia a mangiarle…


p.s. …. è il primo sogno che condivido con voi… e questo è il primo pensiero… grazie per aver creato questo spazio… sogno sempre…ogni notte… e ogni mattina racconto alle persone che porto nel cuore (le stesse co-protagoniste del sogno appena condiviso) ciò che in sogno cerco di raccontare a me stessa… perchè questo credo sia il senso…

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Velocità

Inizia che mi sveglio da un sonno profondo e non capisco subito dove sono. Ma in un attimo metto insieme i dettagli e connetto logica ed emozioni: dentro un’auto bassa bassa e molto spartana, da corsa ma tipo go-kart, lamiera. Velocissimo sotto di noi il nastro di asfalto nero della pista. Se allungassi il braccio fuori potrei toccarlo e penso (e immagino la scena) all’abrasione che mi consumerebbe mezzo braccio in un nanosecondo pulp. Paralizzata e schiacciata. Un rumore frastornante. L’auto è verde Kawasaki (so che ne avevamo parlato un paio di giorni prima), colore che non mi piace e gliel’ho detto. Il poggiatesta con dietro quella semi-ogiva che fa tanto auto sportiva, sempre verde. Non c’è tetto, se la pressione non me lo impedisse saprei che sopra c’è sole e cielo azzurro. Forse c’è un rollbar. Andiamo alla velocità della luce verso un cavalcavia. Sono terrorizzata, non sono io a guidare, ho freddo, sono assordata, non ho il controllo, vorrei urlare ma l’aria contro non fa uscire la voce. Finalmente trovo il coraggio per voltarmi e guardare chi guida, se qualcuno guida. Giro la testa, lo vedo, mi sorride rilassato e a suo agio, allunga la mano destra sul mio ginocchio e io improvvisamente mi sciolgo, sento la paura andarsene e lo starbene che si fa un giro in tutte le mie vene.