Volontariato chic in Siria

Sono con O., una mia amica di vecchia data che conosco davvero ma non vedo mai e che fa la fotoreporter e porta medicine nelle zone impenetrabili della Siria. Mi dice di partire con lei ed io acconsento ma, dopo 5 minuti, mi sono già pentita della scelta perché mi rendo conto di avere paura. Nonostante ciò la seguo lungo una scala a chiocciola di metallo che ricorda quella di casa mia a collegamento tra due terrazze.

Lasciata la scala a chiocciola mi ritrovo in un corridoio che potrebbe essere quello di un qualsiasi liceo fatiscente e proprio a metà del corridoio vedo una specie di desk da segreteria che penso essere la sede dei bidelli.

Mi avvicino al desk ma sedute dietro, invece delle bidelle, ci trovo un gruppetto di ragazze vestite all’ultima moda, con abiti costosissimi e che hanno allestito una specie di mercatino con altri vestiti, borse, cinte, portafogli ed orologi quasi nuovi, costosissimi e tutti o quasi di colori acidi e brillanti e di materiali come vernice o coccodrillo in totale contrasto con l’ambiente grigio e sporco circostante.

Sto per rivolgere loro la parola quando noto che hanno tolto buona parte della lussuosa mercanzia e cercano di nasconderla sotto un tavolo. Allora io,  ridendo divertita, dico loro è assurdo nascondere una parte degli oggetti alla vista perché così non c’è più il paradosso di trovarsi in Siria circondate dall’estremo lusso.

Non sicura che mi abbiano capita dico loro testualmente: “Ma dai, è ridicolo nascondere le cinte, le borse e i portafogli, perché così perdete tutto il vostro lato inconsapevolmente ironico e diventate solo delle sfigate che cercano di apparire”.

Dico tutto ciò ridendo e nel sogno suona davvero come una cosa divertentissima ma anche estremamente logica.

Soddisfatta comincio a seguire la mia amica O. (che nel frattempo è ricomparsa) nel tratto restante del corridoio….

Il giardino

E’ tutto buio in principio. Lentamente la luce inizia a penetrare nella stanza attraverso le due immense finestre che sono alle mie spalle. E’ notte fonda , guardo davanti a me e appare un grande camino acceso sovrastato da un trofeo di caccia… mi arrampico incuriosita ed infilo la mano in bocca al cervo… estraggo 2 pistole, non sono recenti, a dir la verità tutta l’atmosfera sembra del 18° secolo. Nello scendere faccio cadere qualcosa che fa un rumore di vetri rotti. Scappo e mi dirigo verso il belvedere da dove si vede un giardino labirinto. Nell’ inseguimento mi affaccio e trovo una piccola botola dove riesco a nascondere una sola pistola, l’altra mi scivola e va a finire 6 m sotto di me… da lì mi sento tirare per la cintura e scaraventare dall’altra parte. Nel cadere mi ricordo una sagoma che mi guarda. Atterro e buio di nuovo.

Mi sveglio con una luce fortissima, sono dentro un ascensore di metallo che sale. Si aprono le porte e mi trovo all’interno di una stazione, una voce indistinguibile parla, figure colorate poco nitide mi sfrecciano davanti, c’è il classico orologio da stazione che segna un’ora indefinita. Ad un tratto mi trovo 2 uomini uno completamente bianco, l’altro completamente nero che mi sbarrano la visuale. Mi prendono per le braccia ed iniziano a trascinarmi indietro, dicendomi ” Cosa ci fai qui?! Non sei ancora pronta per questo”. Mi riportano all’ascensore e mi lanciano dentro.

Il grande punto interrogativo

Sono per strada, in attesa dell’autobus. C’è una ragazza con i capelli lunghi. Penso che stia aspettando l’autobus anche lei.

Mi giro verso sinistra e al centro di un comprensorio di palazzi in cortina c’è un enorme punto interrogativo il cui gambo è formato da palazzine simili a quelle intorno il cui spessore è così ridotto da farmi pensare che possano crollare da un momento all’altro. La curva del punto interrogativo invece è fatta di fasce di metallo sovrapposte. E’ enorme…

Decido di circumnavigare il comprensorio per osservarlo meglio e per trovare una visuale ottimale affinchè possa scattare una foto. Prima di incamminarmi penso che ritroverò la ragazza dove l’ho alsciata. Purtroppo mentre effettuo il giro del comprensorio le varie visuali non mi soddisfano e finisco per ritrovarmi alla fermata dell’autobus. La ragazza non c’è più, peccato…

Disattenzione

Sono in un parcheggio con il mio amico T.D. e stiamo chiacchierando del più e del meno dentro alla sua macchina. Ad un certo punto decido di andare a prendere una cosa nella mia auto per mostrarla a T.

Arrivato all’auto mi accorgo che gli sportelli sono aperti e che nell’abitacolo c’è un odore diverso dal solito. Capisco che è entrato qualcuno in mia assenza. Temo che ci sia una persona accovacciata e nascosta sui sedili posteriori. Torno allora da T. e lo avverto dell’accaduto chiedendolgi di andare insieme a verificare la situazione.

Prima di recarci verso la mia auto T. prende, come arma di difesa, una tanica di benzina vuota di metallo dal bagagliaio della sua macchina.

Mi dirigo verso l’auto tenendo in mano un casco nero integrale.

Arrivati alla macchina mi accorgo che un signore dai capelli bianchi sta armeggiando dalla parte del passeggero. Lo aggredisco istantaneamente sferrandolgi un colpo con il casco. Il colpo, portato con il braccio destro, risulta però essere poco preciso ed estremamente debole. Colpisco infatti la spalla del signore il quale, senza scomporsi più di tanto, si rivolge a me con un volume di voce piottosto alto e mi spiega che la macchina in questione è la sua e che sarebbe stato prossimo alla partenza se non fossimo intervenuti noi a disturbarlo.

Mi accorgo di aver confuso l’auto, molto simile alla mia, e di essermi recato in una parte del parcheggio diversa da quella nella quale poco prima avevo parcheggiato.

Osservo gli occhi azzurri e candidi del signore dai capelli bianchi vergognandomi terribilmente del mio gesto.

Non guardo T. per paura di trovare nei suoi occhi un’espressione critica o di disapprovazione.

Tornando alla macchina penso a quanto T. nel corso degli anni potrà prendermi in giro per l’accaduto; mi sento di pessimo umore e provo una grande rabbia per il mio gesto e per la mia inaccettabile disattenzione.

Usciamo dal parcheggio con la macchina di T. e vagabondiamo per le vie di quella che appare essere la nostra città. Sembra un paese Toscano, le vie sono piccole, fresche e libere dal traffico.

Improvvisamente una ragazza su di un motorino “Ciao” va a sbattere per disattenzione contro la saracinesca di un negozio ancora chiuso cadendo a terra svenuta.

Chiamo immediatamente con il cellulare il 118 e chiedo l’intervento di un’ambulanza. Non mi accogo che l’operatrice ha risposto e rimango qualche secondo distratto e con il cellulare nella mano sinistra alla ricerca del nome della piazza nella quale mi trovo.

Dopo avere comunicato all’operatrice l’indirizzo, tra mille difficoltà, non ultima quella della miopia, mi dirigo verso il negozio con l’intenzione di aiutare la ragazza.

Nel frattempo il locale della saracinesca colpita ha aperto e i proprietari stanno aiutando la sfortunata ragazza. Entro nel bar/pizzeria a taglio e mi accorgo che un uomo e una donna stanno offrendo della pizza alla ragazza come soluzione del problema assicurativo sorto dopo l’incidente.

La ragazza però sembra non essere affatto contenta della magra consolazione offertale dai negozianti.

Mi accorgo di essere nudo e la ragazza comincia a prendersela co me, con una sorta di eloquio delirante, additandomi come tipico rappresentante del genere maschile.

Mi sembra evidente, dati i miei attributi in mostra, che io non possa negare di essere un uomo, cerco però di difendermi dalle accuse accogliendo il suo sfogo e contenendo la sua angoscia.

La ragazza va in bagno e io mi sdraio su di un letto all’entrata del negozio. Quando la ragazza esce mi accorgo di essere ancora nudo edi aver assunto una posizione che potrebbe essere equivocata e considerata come seduttiva (o per meglio dire da “piacione”).

Cambio posizione cercando di essere il più composto possibile.

Mi reco a mia volta al bagno passando per due stanze dall’arredamento molto spartano dentro le quali, su semplici tavoli di legno, famiglie e gruppi di amici passano insieme un’allegra serata mangiando pizza e bevendo birra.

L’edificio in cemento armato

…una panoramica mi mostra un edificio in fase di costruzione. L’edifico  è posizionato in una vallata circondata da una fitta vegetazione. La struttura non ha tanti muri, perchè ancora da costruire, ma possiede diversi pilastri portanti. Tutto comunque sembra ancora rustico.

…ecco che pian piano la visuale si restringe sempre di più focalizzando due persone che passeggiano tra le stanze dell’edificio.

… Io e D… camminando vicini ci avviciniamo ad una stanza con le pareti in cemento (una delle poche stanze con le pareti), pareti grigie non ancora rifinite. La stanza non ha finestre, e la luce sembra entrare solo dalla grande porta da dove siamo entrati noi. La luce è una luce diffusa e fioca. La stanza ha anche una porta di metallo (simile ad una porta a scorrimento)

lascio che D. entri dentro e non appena si gira verso di me io chiudo la grossa porta di ferro tra noi… mentre chiudo la porta noto lo sguardo attonito di D.

 

La fabbrica

Sono in una fabbrica, una sorta di industria siderurgica nella quale vengono lavorati a caldo metalli di vario genere. Sui binari che corrono in molte direzioni e a vari livelli, quasi come in un film della Pixar, scorrono vagoni a rotelle di varia misura.

Improvvisamente, davanti alla piattaforma sulla quale mi trovo, un carrello a forma di treno esce dalle rotaie. Il vagone rimane in bilico sul precipizio che divide la piattaforma sulla quale mi trovo dai binari sospesi nel vuoto.

Il treno è pieno di bambini impauriti. Grido loro di non avere paura e comincio a pensare a come salvarli. Chiedo ad un bambino di lasciarsi cadere dal vagone per raggiungere le mie braccia. Il bambino si fida e si lancia. Lo raccolgo al volo con la mano sinistra e, accompagnando con un movimento morbido la caduta, rendo possibile l’atterraggio del bambino sulla piattaforma. Riesco a salvare in questo modo tutti i bambini più piccoli; chiedo, invece, a quelli più grandi di spiccare un salto spiegando con quali modalità debbano atterrare per evitare un urto doloroso.

I bambini sono salvi e io mi dirigo dal direttore della fabbrica per raccontare l’accaduto.