Foto ricordo e autoerotismo

Sono nel giardino della casa in Toscana, sono appena arrivato e mi metto subito a sistemare un fazzoletto di terra che sta prima del ponticello, infestato da ortica e altre piantacce. Sradica qua, sradica la, il mio operato porta alla luce delle piccole uova decorate e alcuni ovetti Kinder…

Capisco subito che mio padre li ha nascosti li, sotto le erbacce, per poi poter fare una sorpresa quindi mi affretto a ri-piantare le erbacce, compresa l’ortica che pero’ non punge, affinche’ la sorpresa non venga rovinata.

Più in là nel tempo incontro mio padre, sempre nel giardino, che mi confessa di aver nascosto le uova e, dopo avergli raccontato la mia “scoperta”, ridiamo indicando le erbacce.

Mi ritrovo in una sorta di centro commerciale, alla mia sinistra una scalinata, per terra moquette forse blu, di fronte a me un uomo pelato con andatura frettolosa mi raggiunge. Lo guardo bene e riconosco in lui Patrick Stewart, l’attore che impersonifica Jean-Luc Picard, il comandante dell’Enterprise in Star Trek TNG.

Eccitato dal fatto cerco di fermarlo e gli chiedo se ci possiamo fare una foto insieme, un po’ a gesti, un po’ a parole. Lui dapprima dice di no, poi gli faccio capire che mi accontento di una sola piccola foto. Accetta, si ferma ma mantiene la frettolosità, io intanto mi rendo conto di non avere né un cellulare né tanto meno una macchinetta fotografica e allora, mentre ci mettiamo in posa, cerco, con lo sguardo e anche con la voce, qualcuno che possa immortalare questo evento.

Nel mentre noto sul viso dell’attore, poco sotto il labbro inferiore, una macchia rossa che si protrae fino al busto (probabilmente il ricordo della sua divisa da capitano elaborato male) e mi preoccupo del fatto che chi vedrà la foto riderà di questa cosa… Inoltre rimugino sul fatto che me lo aspettavo più alto.

E’ ora di andare via dal “centro commerciale” ma la mia attenzione viene catturata da una videoteca posta in cima ad una balconata. Decido di visitarla.

Arrivo in prossimità della videoteca ma invece di salire verso la balconata devo scendere delle scale mobili di colore giallo chiaro molto lunghe. Le imbocco senza indugio ma mi pento quasi subito quando, arrivando verso la fine, noto che lo spazio tra la mia testa e il soffitto diventa sempre piu piccolo. In effetti le scale mobili non mantengono la stessa distanza dal soffitto per tutta la loro lunghezza e arrivato alla fine del percorso devo letteralmente sdraiarmi sulle scale per non fare la fine del sorcio.

Riesco, con molta paura e fatica, ad arrivare dove dovrebbero esserci i film in noleggio ma al posto degli scaffali trovo delle salette con delle tende blu dove probabilmente vengono proiettati i film. Ci rimango poco anche perche’ l’aria condizionata e’ a palla e sto morendo di freddo, decido quindi di risalire dall’altra parte.

La risalita e’ molto meno difficoltosa. Alla fine delle scale vendono delle piante molto particolari, tropicali oserei dire. Piove.

Mi ritrovo nello stesso punto in cui ho incontrato Patrick Stewart ma questa volta sono all’esterno. Sono eccitato e mi apparto in un bagno pubblico giapponese.  Una volta entrato mi assicuro che la porta sia chiusa, mi avvicino allo specchio che pero’ e’ una finestra dalla quale si dovrebbe vedere la piscina. Mi affaccio ma noto che la piscina si trova svariati piani sotto quello del bagno e per riuscire a vederla mi devo sporgere un bel po’. Sul muro di fronte posso vedere le finestre di altri appartamenti. Mi ritiro dentro pensando a come si viva male in Giappone…

Mi siedo sul bordo della vasca da bagno e inizio a praticare dell’autoerotismo con la bocca, con piacere ma sprattutto con grande stupore… Dopo un po’ noto con la coda dell’occhio degli insettini che razzolano per il bagno. Li noto anche sul lavandino, sullo specchio e in poco tempo mi rendo conto che sto bagno fa veramente schifo.

Esco e mi ritrovo vestito solo dei miei boxer rossi con i pesciolini seduto alla scrivania di casa che pero’ e’ posizionata di fronte alla testata del letto. Sento aprire la porta d’ingresso. E’ F. che ritorna e mi dice che sta con M. (nella realta’ una mia collega che non conosce) e mi prende un colpo perche’ sto in mutande.

Arrivano nella stanza dove mi trovo ma la scrivania si e’ trasformata nel letto e non mi preoccupo piu di farmi vedere in boxer dalla mia collega poiche’ sono coperto dal piumone. M. fa i complimenti per l’arredamento.

Il seminterrato

Sono nel seminterrato di via Madonna dei Monti che tanto tempo fa affittai con alcuni amici.

Io e C. abbiamo deciso di affittare l’appartamento (completamente da ristrutturare) con l’intenzione di aprire uno studio.

C’è molto da fare: buttare vecchi mobili, sistemare il bagno, dipingere le pareti, comprare un deumidificatore, ecc.

Il seminterrato è molto umido e pieno di muffa. Decido di salire su di una sedia e aprire le finestre che si trovano nella parte alta delle pareti di ciascuna stanza. Le persiane sono incastrate e coperte di ragnatele. Spingo per aprirle. Alcune persiane si aprono e altre si rompono lasciando passare la luce del sole. Sento un calore rigenerante che presto farà sparire l’umidità e la muffa sui muri. Entra anche una leggera brezza che mi rende sereno e mi fa pensare che presto l’odore di chiuso svanirà lasciando il posto a nuovi profumi.

C. ed io siamo molto contenti di iniziare insieme questa nuova avventura professionale.

La bicicletta fissa

Sono in una zona periferica di Roma e sto percorrendo a piedi una grande strada simile alla Tuscolana alla ricerca di un negozio di biciclette.

Dopo aver percorso una parte della strada senza aver trovato alcunché, decido di entrare in un negozio di scarpe per chiedere informazioni.

Una ragazza molto grassa e vestita di bianco mi viene incontro riconoscendomi. E’ una mia conoscente, anche se nella realtà non la conosco affatto.

“Ma che ci fai qui?” mi dice con voce squillante ed allegra.

“Mi sai dire dove è il negozio di biciclette?” chiedo.

“Certamente. E’ qui vicino, ma non ricordo se a destra o a sinistra dell’uscita. Comunque saranno poche centinaia di metri.”

Ringrazio la ragazza, che nel frattempo mi ha parlato di alcuni amici in comune, ed esco dirigendomi a sinistra, consapevole di aver già percorso la parte destra della grande strada di periferia.

Pochi istanti dopo trovo il negozio ed entro.

Dietro al bancone una ragazzo alto e dal viso simpatico mi dice di essere a mia disposizione per eventuali informazioni. Io chiedo quanto vengano dei cerchioni nuovi per la mia bicicletta.

“Trenta Euro quello anteriore e trentacinque quello posteriore, poi se vuoi smontare la corona vecchia e montarla sulla posteriore nuova saranno al massimo altri cinque Euro”

Ci confrontiamo sulle ipotesi migliori per ristrutturare le bici fino a scoprire di essere interessati tutti e due alle biciclette con il mozzo fisso.

“Dai, anche io sono un patito della fissa!” mi dice con entusiasmo.

“Se vuoi farla possiamo lavorare insieme, ti faccio un buon prezzo. Sarebbe la mia prima fissa e sarei troppo contento!” mi spiega gioiosamente.

Parliamo un po’ di catene e di pignoni soffermandoci poi sul prezzo di un mozzo fisso nuovo.

La cifra è abbastanza alta, ma l’idea di imparare a modificare le bici e di avere finalmente una “fissa” mi alletta notevolmente.

Ragiono su quanto possa però essere faticoso pedalare su di una bici del genere, dove il movimento della ruota è in stretta relazione all’intensità della pedalata e dove l’assenza di movimento delle gambe corrisponde ad una “fissità” della ruota stessa.

 

Edward Norton versione Tootsie

Ero al cinema con la mia amica R. e altri, per vedere non so che film, ma comunque uno a cui tenevamo molto. C’era tantissima gente che saliva le scale. C. arrivava con la madre e altre persone, presumibilmente amici dei genitori, e andava a sedersi in galleria.

A un certo punto, mentre stavamo in una specie di sala d’attesa molto simile a un’anticamera della mia vecchia università, spuntava fuori Edward Norton vestito da donna (in modo imbarazzante, un po’ come Dustin Hoffmann in Tootsie. Ciononostante, rimaneva sempre Edward Norton), fischiettando un tema molto famoso (ma sul momento non ricordavo quale fosse). Io, R. e gli altri sapevamo che avrebbe dovuto cantare la colonna sonora di Rushmore poco dopo sul palco. Lui, che chiacchierava con altri sulla porta, mi chiamava e mi dava dei fogli raccolti in una busta trasparente, con un elenco di titoli scritto a mano, e mi diceva che probabilmente avrebbe cantato due canzoni. Io lo guardavo e gli dicevo una frase stupida, da fan idiota, tipo “Sposami”. Poi tornavo da R. e dagli altri e raccontavo la cosa in maniera ancora più stupida, così ridevamo tanto (in pieno stile Sex and the City) e ci dicevamo che non vedevamo l’ora di sentire Norton cantare.

Poi salivamo delle scale (c’era ancora tanta, tanta gente che cercava di raggiungere i posti) e qualcuno diceva che c’erano dei gadgets del film a disposizione, e io urlavo “Adoro i gadgets!”.

Nonostante la confusione, ci ritrovavamo al bar del cinema, piuttosto cupo, vicino la galleria. C’era di nuovo C. (ma forse c’era anche prima, probabilmente era stato lui a dirmi dei gadgets) seduto a un tavolino, che mi faceva notare che dicevo spesso cose “allucinanti” e che lui non diceva niente, però mica potevo fare sempre così, e io, guardando tutta quella gente che affollava il cinema, capivo che aveva ragione, che parlavo parlavo parlavo, stavo sempre a parlare, parlavo veramente troppo, e alla fine gli chiedevo scusa e mi sentivo in colpa.

A quel punto mi ricordavo di avere in mano una busta molto grande con dei gelati confezionati che dovevano servire in seguito. Mi chiedevo chi li avrebbe mangiati, e pensavo che non si potevano buttare via, e che avremmo dovuto costringere tutti a mangiarli, anche perché non erano tanti, giusto 5 o 6, e noi eravamo di più.

Subito dopo io, R. e gli altri decidevamo di fare un giro in elicottero, dal momento che ne trovavamo uno molto bello e molto grande lì vicino, proprio accanto al balcone della salagiochi del cinema. All’inizio salivo io, ma poi mi rendevo conto che c’era un po’ di gente, tra cui la madre di R. e un ragazzino che non conoscevo. Sull’elicottero (bianco, ma con dettagli colorati) c’erano diverse cabine, per 2 o 4 persone, aperte, senza protezione, e in volo bisognava stare sdraiati e aggrappati a dei tubi di ferro.

Mentre volavamo lì intorno (il panorama era bellissimo, giravamo intorno a una ruota panoramica, il paesaggio era collinare), mi rendevo conto di star seduta, e di non avere paura dell’elicottero. Quindi facevo tutta una serie di considerazioni tra me e me sulla sicurezza degli elicotteri e sul fatto che la percentuale di incidenti in elicottero fosse minore rispetto a quella degli incidenti in aereo, e intanto mi accorgevo che ce ne erano altri che volavano lì vicino.

Intanto iniziavamo a vedere (forse in un monitor) Edwart Norton e Ben Stiller che vestiti da donna (Ben Stiller aveva la tuta rossa del film “I Tenenbaum” e la stessa capigliatura) iniziavano a cantare in italiano (Norton aveva qualche difficoltà a ricordare le parole, e leggeva il testo, doveva aver recuperato i fogli che mi aveva affidato prima).

La canzone era inedita e a un certo punto mi rendevo conto che si trovavano anche loro due su un elicottero.

Cercavo di sentire bene le parole della canzone e di capire se mi piacesse o meno, e intanto atterravamo per tornare al cinema. Edward Norton e Ben Stiller si trovavano probabilmente sul nostro stesso elicottero, stavano scendendo anche loro, continuando a cantare, seguiti dalle telecamere.

Noi correvamo di nuovo verso il cinema, e la madre di R. diceva che avevamo perso esattamente 7 minuti di film in questo modo, ma io pensavo che non era stata colpa mia se avevamo fatto quel giro (perché supponevo che me lo stesse rimproverando), che di certo non avevo obbligato nessuno (neanche sapevo che lei fosse lì, dopotutto),  e che tutto sommato c’eravamo divertiti da morire, dal momento che sentir cantare Edward Norton in italiano volando su un paesaggio così bello non capitava tutti i giorni.

Poi qualcuno diceva che in realtà avevamo perso troppo tempo nel sentire il racconto che riguardava una specie di mostro, una via di mezzo tra un dinosauro e un’aquila, che stava appeso sulla veranda di una casa colonica che si trovava proprio lì di fianco. Io non mi ricordavo niente di tutto ciò, e non capivo se a raccontare quella storia fosse stata la madre di R. o forse un’altra signora che viveva lì, ma sentivo che alla fine si diceva che, com’era prevedibile, mentre eravamo sull’elicottero avevano rubato una parte dell’animale, forse una zampa o un’ala.

A quel punto tornavamo al cinema dalla scala antincendio.

Da Campo de Fiori a Piazza Vittorio

Sono dalle parti di Campo de’ Fiori in compagnia di un gruppo di amici che nella realtà non conosco affatto. Ho diciassette anni e il mio vestiario ed i miei atteggiamenti corrispondono a quelli di un tempo. Roma è invasa da morti viventi e le persone scappano terrorizzate alla ricerca di un posto sicuro dove passare la notte.

I miei amici hanno parcheggiato in piazza i loro motorini e mi propongono di correre fino al parcheggio per poi scappare e metterci in salvo. Correndo per le vie del centro, un gruppo di ragazzetti tende un agguato ad uno zombie rimasto da solo massacrandolo di botte. Un panettiere, spingendo una carriola, insegue il suo cane nel tentativo di fermare la sua corsa verso zone pericolose infestate dagli zombies.

Il panettiere corre fino a quando si accorge di essere entrato in una zona troppo pericolosa per lui. Decide quindi di fermarsi e, con enorme dolore, di non correre il rischio di essere ucciso per salvare il suo cane. Critico il comportamento del panettiere poi, riflettendo meglio, ipotizzo che, se fossi stato nella sua stessa situazione, avrei probabilmente agito nella stessa maniera. Arrivati davanti ai motorini, mi accorgo che il mio amico possiede un vecchio Benelli a marce con la sella corta.

Domando al mio amico come creda di poter scappare con un veicolo del genere e ragiono sulla effettiva difficoltà di sedersi in due su quel mezzo. Alla sinistra del Benelli scorgo uno scooter cinquanta, rapido e scattante, con le chiavi d’accensione inserite. So che si tratta del motorino di uno degli amici del mio amico e, nonostante sappia che servirà a lui per fuggire e sopravvivere, decido di rubarlo e scappare più in fretta possibile. Iniziata la fuga, mi ritrovo nuovamente a Campo de Fiori, senza motorino, in compagnia degli amici, come se il furto l’avesse compiuto un’altra persona. Ci rifugiamo dentro una scultura in rame dalla forma circolare.

Un panettiere/cameriere ci serve un pezzo di pizza bianca del forno di Campo de’ Fiori. Dividiamo equamente la razione di cibo, consapevoli della difficoltà di rintracciare alimenti in una Roma invasa dai morti viventi. Davanti a noi una ragazza alta con i capelli rossi ed una ragazza cinese, truccate da zombie, sono in attesa di entrare in un negozio di fotografia per ottenere un impiego.Ci accorgiamo che le ragazze sono truccate e che probabilmente sono delle attrici appena uscite da un set cinematografico. Le ragazze entrano e ascoltano il discorso del proprietario del negozio (molto simile al mio amico P.P.) il quale spiega ad un nutrito gruppo di persone quali siano le caratteristiche ideonee per poter ottenere il posto di lavoro.

Terminato il discorso il ragazzo si intrattiene a lungo con la ragazza truccata da zombie. Parlano per un po’ di tempo, scherzano, flirtano e poi iniziano a baciarsi e a fare l’amore. Pochi secondi dopo mi accorgo di uno strano pulsare nelle vene del piede della ragazza. Capisco che a breve si trasformenrà in un terribile mostro.Nel momento in cui lo zombie appare, l’immagine della ragazza si sdoppia in una parte buona e a fuoco e in una parte cattiva sfocata e trasparente. Il ragazzo si chiede come sia possibile che, dopo aver fatto l’amore, la ragazza possa desiderare di ucciderlo. La parte buona della ragazza, sentendo tali pensieri, si sforza di fermare la parte zombie. La lotta è molto faticosa, ma la ragazza ottiene una schiacciante vittoria sulla parte cattiva salvando il ragazzo da una morte sicura. La scena cambia radicalmente.

Sono a P.zza Vittorio e acquisto due periodici dedicati ai alle macchine d’epoca. In entrambe le copertine spiccano due modelli perfetti di opel Kadett 1000, la mia prima macchina ricevuta in eredità da mio nonno. A Largo Brancaccio un gruppo di persone di origine filippina è radunata a bere birra e chiacchierare. Davanti a me una perfetta Opel Kadett di colore azzurro. Mi avvicino timidamente e chiedo chi sia il proprietario del veicolo d’epoca. Spero così di riuscire ad entrare nuovamente in una Opel Kadett per ammirarne i sedili, il quadro, il volante e respirare l’odore che sentivo quando ero poco più che adolescente dentro la mia macchina.

Un ragazzo cinese/indiano dalla faccia simpatica mi racconta la sua passione per la Kadett, come curi con grande attenzione la carrozzeria ed il motore. Mi racconta di vivere dalle parti di Cinecittà e di come sia difficile spostarsi per Roma con un veicolo così antico e prezioso. Mostro al ragazzo le due riviste, dalla forma bizzarra di pila/supposta, e domando quale sia l’anno di immatricolazione del veicolo. “1975 o 1976?” chiedo “1976” risponde il ragazzo. Stringiamo un’amicizia che mi sorprende per la vicinanza di interessi nonostante l’apparente diversità culturale.

Miscuglio

Mi trovo con il mio ragazzo in un paese arabo, siamo andati a trovare quella che nel sogno è la sua famiglia. Precisamente siamo in un luogo poco definito: a volte sembra un lager, poi diventa un treno in corsa.

Dal finestrino del treno mi rendo conto che quella che nel sogno è la sorella del mio ragazzo, cade dalla terrazza a testa in giù. Sitratta di una ragazza vetsita da araba, la vedo sempre da lontano, non riesco a vedere bene i suoi tratti somatici, ma il colore dominante è il nero. Fortunatamente riusciamo a salvarla anche se in coma.

Successivamente mi trovo nell’atrio di un edificio, molto simile ad un centro commerciale, c’è molta gente, allora entro in una stanza della casa dei genitori del mio ragazzo, è vuota, entro nel bagno e noto dallo specchio una figura, molto simile ad una donna impiccata. Faccio finta di niente, ma molto agitata cerco il mio ragazzo che nel frattempo si trova in mezzo ad una folla di gente. Lo chiamo, urlo e finalmente lo riesco a far passare. Nell’agitazione urto un buttafuori e mi fa capire che si serebbe vendicato del mio gesto, mi dice che non sonoi in Europa e lì queste cose sono punite.

Dico al mio ragazzo di guardare nel bagno e scopro di non essermi sbagliata e che la persona allo specchio è la sua madre musulmana. Stessa scena: non riesco a vedere i tratti del viso, il volto è scuro, vedo solo un corpo in degli abiti tipicicamente arabi neri.

Ci disperiamo, cominciamo a piangere, gli dico che c’é qualcosa che non va, che siamo in pericolo, penso a mio nonnno che nel sognio è appena morto, penso al’attentanto della sorella e adesso alla madre.

Agitata prendo il cellulare per chiamare mia madre, ma nella fretta faccio il numero della mia nonna materna che contenta di sentirmi comincia a chiacchierare, io le speigo che devo riattaccare e stando all’estero spendo troppo.

Finalmente parlo con mia madre, cerco di spiegarle la situazione, ma non ci riesco perchè lei comincia a parlarmi di tutti i suoi problemi…

Mi ritrovo alla Stazione Trmini prendo un autobus non troppo pieno, ad una fermata c’è una folla di gente che vuole salire, impaurita decido di scendere ma faccio fatica. Dovrei trovarmi su Via Casilina, ma non la riconosco, chiedo informazioni a due tizi che sono scesi con me e mi danno indicazioni per via casilina.

Finisco in un giardino, capisco dalla musica che ascolto che si tratta la casa di un ragazzo. Nel fratempo mi si avvicinanao dei cani, diventanio sempre più numerosi, impaurita lancio loro qualcosa da mangiare che avevo in mano. Esce il ragazzo a petto nudo, è biondo, molto magro, ci scambiamo alcune battute e poi esce dalla casa una mia collega dell’università.

Bambini

Sono sul mio vecchio posto di lavoro. Alcuni bambini mi vengono a salutare accogliendomi con grandi sorrisi e urla di gioia.

Una bambina mi porta in regalo un Cd; ha circa due anni, ma è truccata come una donna. Si scusa più volte per il regalo forse poco interessante, poi mi spiega che purtroppo non ha ricevuto alcun aiuto dai genitori e quindi ha dovuto pensare ad un regalo per me senza il contributo di un adulto.

La ringrazio e la abbraccio affettuosamente. Sto per chiamarla per nome quando mi accorgo che non sono sicuro che si chiami Giulia; per non rischiare di sbagliare mi fermo appena in tempo rivolgendomi a lei chiamandola “piccolina”.

Tra i bambini riconosco gli occhi di una mia vecchia amica. Silvia è tornata bambina e sta vivendo nuovamente la sua infanzia. Mi commuovo nel vedere i suoi occhi pieni di vita e nel pensare che per lei ora è possibile fare scelte diverse da quelle fatte durante la sua esistenza precedente. Sono colpito dal fatto che sia stato così semplice riconoscerla e mi meravilgio che anche lei conservi intatto il ricordo della nostra infanzia insieme.

Mi commuovo fino alle lacrime.

Tento di arginare la mia commozione pensando che non sia il caso che dei bambini così piccoli mi vedano piangere.